Con recentissima ordinanza n. 26301 del 29 settembre 2021, la terza sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di risarcimento del danno parentale in caso di morte del feto in utero, riconducibile a responsabilità medica, ed ha ritenuto come sia improprio e riduttivo parlare di un mero “danno da perdita del frutto del concepimento”, dovendosi invece riconoscere “un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale”.
Per l’ordinamento italiano, il concepito, intendendosi il feto nel grembo materno e non ancora nato, non è considerato soggetto giuridico: l’art. 1, comma 1, del Codice Civile afferma chiaramente che “la capacità giuridica” – ovverosia l’idoneità ad essere titolare di diritti e doveri giuridici – “si acquista al momento della nascita”. Tuttavia, il concepito, pur non avendo capacità giuridica ex lege, è comunque un soggetto di diritto, in quanto titolare di interessi giuridicamente rilevanti che vengono riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale sia sovranazionale: il diritto alla vita e alla salute, all’onore, all’identità personale e ad una nascita sana.
La tutela del concepito trova, infatti, fondamento non solo nella Costituzione in termini di tutela della maternità ex art. 31, secondo comma, per il quale “(La Repubblica) protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”, ma, più in generale, nell’art. 2 Cost. che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, nonché nell’art. 8 della CEDU, che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare.
Quando la morte del feto in utero è conseguenza di una condotta negligente, imprudente o imperita dei sanitari che hanno avuto in cura la gestante, si parla di responsabilità medica e di risarcimento dei danni – patrimoniali e non, subìti dai parenti del nascituro, in ordine alla sofferenza interiore da questi patita sul piano morale e legata alla perdita del bambino.
Già in passato la Corte di Cassazione aveva assunto una chiara posizione in materia, riconoscendo come il danno risarcibile in ipotesi di morte intrauterina conseguente all’operato dei sanitari dovesse tenere conto non solo della perdita del figlio ma anche del turbamento delle abitudini di vita della gestante e di uno sconvolgimento delle sue relazioni familiari e sociali: una “sofferenza interiore patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita” (Cass. n. 8442 del 27 marzo 2019).
Nel caso in esame, la Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato da una coppia che aveva convenuto in giudizio l’ASL onde ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti in conseguenza della morte del feto portato in grembo dalla madre. La domanda veniva accolta in primo grado, poiché l’esito infausto della gravidanza veniva ricondotto ai profili di negligenza ed imperizia a carico dei sanitari, riscontrando peraltro un’elevata probabilità di sopravvivenza del nascituro qualora l’intervento medico fosse stato eseguito correttamente. La ASL veniva dunque condannata al risarcimento del danno non patrimoniale “per perdita del frutto del concepimento”.
I genitori ricorrevano in appello, ritenendo non equa la determinazione del danno, e chiedevano la liquidazione di un importo maggiore. Il ricorso veniva respinto in quanto per la Corte d’Appello tutti gli aspetti della sofferenza patita dalla gestante in conseguenza alla morte del feto in utero (il panico, gli incubi notturni e il mutamento delle abitudini di vita) rappresentano un danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento per i danni non patrimoniali patiti per la perdita del frutto del concepimento”.
Conclusione considerata assolutamente non condivisibile e, per questo, ribaltata dalla Cassazione che, con l’ordinanza n. 26301/2021, ha ritenuto errata la quantificazione del danno non patrimoniale causato dalla perdita del nascituro che non tenga conto degli strascichi che quel lutto ha lasciato nell’animo dei genitori.
La Cassazione valorizza l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori, riconoscendo come in tema di danno da perdita del rapporto parentale “la sofferenza morale costituisce assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo” e rileva nella sua duplice dimensione “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella ulteriore e diversa che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi di vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita”.
Pertanto, il danno in discorso non può essere circoscritto a mera “perdita del frutto del concepimento”, bensì è da intendersi quale vero e proprio “danno da perdita del rapporto parentale” e le dinamiche di panico, incubi e mutamento delle abitudini di vita subite dalla gestante non possono essere considerate estranee alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 del Codice Civile.
Con questa pronuncia la Corte, al termine di un lungo percorso interpretativo, ha finalmente colto la reale fenomenologia del danno alla persona e, nello stabilire il metro di valutazione della liquidazione del danno, ha affermato che “Esiste una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus. Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento se è vero che, come insegna la più recente ed avveduta scienza psicologica, e contrariamente alle originarie teorie sull’elaborazione del lutto, quella della cosiddetta elaborazione del lutto è un’idea fallace, poiché camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto. Il vero danno nella perdita del rapporto parentale è la sofferenza, non la relazione. È il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a sé stessi nel mondo”.
avv. Marta Cipriani