Prime pronunce sul reato di abuso d’ufficio riformato: il rischio di una abolitio criminis solo apparente

Prime pronunce sul reato di abuso d’ufficio riformato: il rischio di una abolitio criminis solo apparente

Prime pronunce sul reato di abuso d’ufficio riformato: il rischio di una abolitio criminis solo apparente Monica Alberti

Il Decreto Semplificazioni (D.L. 76/2020), ennesimo esempio di decretazione d’urgenza, ha riformato, come noto, il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p. In sintesi, la modifica ha interessato solo una delle condotte punibili laddove ha disposto che l’abuso penalmente rilevante oggi è quello commesso “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” al posto di quello che veniva realizzato “in violazione di norme di legge o di regolamento”.

La nuova formulazione sembra ridurre l’ambito di applicabilità della norma attraverso una abolitio criminis, (parziale in quanto limitata solo ad una delle condotte illecite previste), in relazione a fatti di abuso d’ufficio commessi prima dell’entrata in vigore del DL 76/2020 che non rientrano nella norma così come modificata.

Si coglie l’intento del Legislatore di restringere la portata applicativa dell’art. 323 c.p. onde evitare il propagarsi di orientamenti giurisprudenziali che ne avevano dilatato i confini fino a comprendere nella “violazione di legge” i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della PA previsto dall’art. 97 Cost. nonché ipotesi di violazione di legge c.d. mediate qualora si rimandi a fonti non regolamentari (es. bandi di gara), ovvero subordinate, di rango sub-legislativo.

La condotta pare, pertanto, subire un vero e proprio taglio: le fonti delle norme che integrano il precetto penale sono oggi la legge e gli atti aventi forza di legge, espressioni riferibili ai soli decreti-legge e decreti legislativi. Inoltre, deve trattarsi di violazioni di regole di condotta espressamente previste dalla legge, locuzione che dovrebbe rinviare solo a quelle regole chiare, vincolanti espresse da fonti legislative, eliminando così la possibilità di attingere dalla stratificazione caotica e complessa di circolari e regolamenti.

Un ulteriore requisito che il giudice sarà chiamato a valutare, oltre all’espressa previsione di legge, è l’assenza di margini di discrezionalità della regola di condotta trasgredita dall’agente, colpendo così anche gli orientamenti che riconducevano al reato di abuso d’ufficio l’eccesso di potere.

Questa abrogazione parziale, ovviamente, non potrà interessare quei comportamenti che sono sussumibili nell’altra modalità di condotta prevista dall’art. 323 c.p. che è rimasta inalterata, nonché quei fatti che potranno essere condotti ad altre fattispecie di reato.

Orbene, nonostante gli intenti del Legislatore dalle prime pronunce della Corte di Cassazione la portata della riforma pare essere in realtà di molto svilita.

Con una prima sentenza, la Corte di Cassazione (sez. feriale 25.08.20, n. 32174) ha confermato che l’intervenuta abrogazione non riguarda i fatti riconducibili all’omessa astensione in presenza di una situazione di conflitto di interesse ribadendo che “siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente ristretto l’ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d’ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l’inosservanza dell’obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione”.

Orbene, pur confermando che l’abolitio riguarda solo l’ipotesi della violazione di legge non sfuggirà la precisazione che l’obbligo di astensione negli altri casi prescritti non andrà limitato solo alle fonti legislative primarie che espressamente lo prevedono ma potrà essere desunto anche da generiche fonti extra – penali.

In tal modo, la Suprema Corte sembra affermare che nel caso in cui non sia possibile riscontrare la violazione di fonti legislative primarie, si possa tentare di far rientrare quel fatto nel perimetro della violazione dell’obbligo di astensione che, certamente, ha confini più ampi e permeabili ai principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost.

Si segnala, infine, una pronuncia ancor più recente (Cass. Sez. VI, 28.09.20, n. 26834) laddove la Corte, affrontando un caso di abuso edilizio, segue la strada della violazione mediata di legge ribadendo che “l’orientamento consolidato di legittimità ha, da tempo, affermato che il requisito della violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, è integrato dalla conformità alle previsioni urbanistiche, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 13, in quanto il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1, – “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico – edilizia vigente”. Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p.

Ritiene il Collegio che l’interpretazione della nozione di “violazione di legge” come delineata dalla citata giurisprudenza sia pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.

Dalle pronunce richiamate traspare quindi una interpretazione giurisprudenziale tesa a sottovalutare i requisiti del nuovo reato di abuso d’ufficio (atti aventi forza di legge, l’avverbio espressamente, l’assenza di margini di discrezionalità), che rischia di fatto vanificare il vero intento del Legislatore della riforma di limitare l’interpretazione ermeneutica rendendola rigorosa e aderente al dettato letterale della norma.

avv. Monica Alberti

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