Con la recente Ordinanza n. 31367/2025, pubblicata il 1° dicembre 2025, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della responsabilità datoriale in presenza di un ambiente di lavoro stressogeno, chiarendo che l’assenza di un intento persecutorio non è, di per sé, sufficiente ad escludere la violazione dell’art. 2087 c.c.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha precisato che: “In tema di responsabilità datoriale, ove non sia configurabile una condotta di mobbing, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, può pur sempre essere ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi. Ne consegue che una situazione di stress può rappresentare fonte di risarcimento del danno subito dal lavoratore, ove emerga la colpa del datore di lavoro nella contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia come tale causativo di pregiudizio per la salute”.
Con la pronuncia in esame, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Ancona in quanto quest’ultima, nel rigettare la domanda di risarcimento danni proposta dalla lavoratrice, si era sottratta alla disamina dei comportamenti datoriali.
Secondo il Giudice di legittimità, tali comportamenti dovevano essere valutati in modo complessivo e non atomistico, nella loro portata oggettivamente lesiva della dignità e della personalità della lavoratrice, anche prescindendo da una preordinata volontà di emarginazione o isolamento, ossia come comportamenti – di fatto – determinativi di un ambiente di lavoro mortificante o comunque non ideale per svolgere i compiti assegnati. Ciò anche in considerazione del delicato momento – nella circostanza, lo stato di gravidanza – vissuto dalla ricorrente.
La Suprema Corte ha ribadito come l’obbligo di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore imposto al datore di lavoro non si esaurisca nel divieto di condotte vessatorie intenzionali, ma si estenda a tutte quelle situazioni organizzative, gestionali e relazionali che, considerate nel loro complesso, risultino oggettivamente idonee a compromettere la dignità e il benessere del prestatore di lavoro.
La decisione in esame conferma che la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore non ammette sconti, riaffermando la funzione preventiva e protettiva dell’art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema posto a tutela del lavoratore.
avv. Stefania Massarenti