Mobbing sul posto di lavoro: le interpretazioni della Cassazione tra maltrattamenti in famiglia e stalking occupazionale

Mobbing sul posto di lavoro: le interpretazioni della Cassazione tra maltrattamenti in famiglia e stalking occupazionale

Mobbing sul posto di lavoro: le interpretazioni della Cassazione tra maltrattamenti in famiglia e stalking occupazionale Federica Beltrame

Ormai da anni sentiamo parlare di mobbing, ovvero quel comportamento caratterizzato da violenza psicologica o fisica di carattere intimidatorio che porta la vittima a sentirsi emarginata, inferiore e mortificata, e che spesso tende all’autoisolamento. Ciò può condurre alla lesione della dignità della persona, oltre che a comprometterne la salute psicofisica.

Nella maggior parte dei casi gli episodi di mobbing avvengono sul posto di lavoro e si traducono in una serie di atteggiamenti persecutori messi in atto da un collega o dal proprio capo (in questo caso si può parlare anche di bossing).

Il legislatore, però, non ha mai previsto una fattispecie penale che vada a sanzionare le condotte sopra descritte ed il vuoto è stato colmato dalle pronunce giurisprudenziali.

In un primo momento la Suprema Corte si era espressa ritenendo che la condotta di mobbing potesse integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia: “le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cd. Mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia” (ex plurimis Cass. Pen. sez. VI n. 27905 del 23/09/2020; Cass. Pen. Sez. III, n. 23104 del 26.02.2021).

Questa fattispecie, però, poteva ritenersi integrata solo nel caso in cui la condotta si fosse realizzata nell’ambito di un “contesto familiare”, elemento essenziale del delitto di maltrattamenti in famiglia. Chiaro è che per potersi parlare di contesto para-familiare, la condotta doveva inserirsi all’interno di un’attività lavorativa di piccole dimensioni, non per forza a gestione familiare, ma dove tra il reo e la vittima si potesse ingenerare un rapporto stretto.

Conseguentemente, in caso di mobbing occupazionale consumato all’interno di realtà societaria di medie-grandi dimensioni, la condotta non poteva ritenersi integrante il delitto di maltrattamenti in famiglia già solo per il fatto dell’assenza di un contesto familiare c.d. anche para-familiare.

Per ovviare a questa ulteriore mancanza di tutela, la giurisprudenza ha recentemente individuato un’altra fattispecie che andrebbe a sanzionare le medesime condotte qualora consumate fuori dal contesto para-familiare.

Con la sentenza 12827 del 5 aprile 2022, la V sezione della Cassazione ha infatti ritenuto che “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, che ben possono essere rappresentanti dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi, tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis cod.pen.

Con questa ultima pronuncia la Cassazione ha poi già anticipato la questione relativa al tipo di dolo necessario per la configurazione del reato di atti persecutori.

Osserva la Corte che “anche nel caso di stalking “occupazionale” per la sussistenza dell’art. 612-bis c.p. è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico”.

Con questa ultima pronuncia, la Cassazione richiama un precedente provvedimento della medesima V sezione (sent. n. 31273 del 14.09.2020) la quale aveva già riconosciuto che “il mobbing, inteso come mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, integra il reato di atti vessatori di cui all’art. 612-bis c.p., qualora sia idoneo a cagionare uno degli eventi ivi alternativamente previsti che condividono il medesimo nucleo essenziale rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie, a prescindere dal contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria”.

Il risultato non è di poco conto: le condotte di mobbing che prima andavano esenti da responsabilità penali per il solo fatto di essere state perpetrate all’interno di società di medie o grandi dimensioni, ora potranno essere passibili di contestazione penale.

avv. Federica Beltrame

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