SLM | NEWS Criteri di responsabilità dell’ente per il reato commesso da soggetti non apicali: la sentenza del Tribunale di Milano nel caso Johnson & Johnson Medical

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SLM | NEWS Criteri di responsabilità dell’ente per il reato commesso da soggetti non apicali: la sentenza del Tribunale di Milano nel caso Johnson & Johnson Medical 1400 800 Monica Alberti

Nella quasi totalità dei processi ex d.lgs. 231/2001 si procede a carico dell’ente per fatti di reato realizzati da soggetti apicali.

Ebbene, una innovativa sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. X penale, 25 maggio 2023, n. 3314) nei confronti di una nota industria farmaceutica (Johnson & Johnson Medical) rappresenta, invece, una delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 7 del d.lgs. 231/2001, ovvero di responsabilità dell’ente per reati commessi da sottoposti.

La vicenda ha ad oggetto fatti illeciti tra due dipendenti della società e un noto specialista in ortopedia, direttore della divisione di ortopedia e traumatologia di un ospedale pubblico di Milano, che nel processo principale sono stati condannati per corruzione propria.

Nel procedimento nei confronti della società è stato, invece, contestato all’ente di aver adottato un modello inidoneo a prevenire il reato presupposto di corruzione e, comunque, di non averne dato efficace attuazione.

È bene da subito evidenziare che sotto il profilo oggettivo, il Tribunale ha ritenuto sussistenti tutti gli elementi costituitivi del reato in quanto l’istruttoria dibattimentale ha fornito risultanze del tutto sovrapponibili a quelle raggiunte nel processo per il reato presupposto. Così come il Tribunale ha ritenuto raggiunta la prova anche sulla circostanza che le due dipendenti hanno agito nell’interesse e a vantaggio dell’ente.

La questione centrale, di grande rilievo e interesse, affrontata dalla sentenza attiene dunque l’accertamento della colpa di organizzazione dell’ente quale requisito soggettivo dell’illecito 231.

Il Tribunale nel condurre tale ricognizione sull’idoneità dell’assetto organizzativo della società si sofferma, infatti, almeno su due tematiche che non trovano precedenti.

Il Collegio svolge in primo luogo un esame approfondito delle misure organizzative e dei protocolli preventivi predisposti dalla società testandone l’idoneità e l’efficacia per poi applicare – fatto rarissimo – il criterio di imputazione di cui all’art. 7 d.lgs. 231/2001.

Come noto, il primo comma dell’art. 7 d.lgs. n. 231 prevede la responsabilità dell’ente quando il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti in caso di inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, che viene esclusa dal comma 2 qualora venga attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Orbene, il Tribunale afferma che: «la culpa in vigilando, che integra l’elemento di connessione tra reato ed ente rispetto ai reati commessi dai non apicali, non passa, necessariamente, attraverso la condotta “colposa” di una persona fisica-controllore, ma è (e resta comunque) incardinata nella strutturale colpa di organizzazione, che è una forma di “colpevolezza impersonale”, propria della societas e direttamente riferita all’organizzazione collettiva, anche se innervata – come si è riscontrato anche in questo caso e come si ribadirà in appresso – di condotte inadeguate di individui sovraordinati ai sottoposti cui è ascritto il reato».

Quindi, per il Tribunale gli obblighi di direzione e vigilanza devono essere adempiuti dall’ente attraverso una adeguata organizzazione preventiva e tanto basta ad escluderne la colpevolezza.

Per quanto attiene il Modello Organizzativo, invece, si pone un ulteriore quesito ovvero se la mancanza dello stesso comporti automaticamente la responsabilità dell’ente.

Su questo punto il Tribunale pare aderire all’interpretazione in base alla quale l’accertata assenza del modello o la sua inidoneità non sono di per sé sufficienti a provare la colpevolezza dell’ente.

Altresì, nel corso del processo si è evidenziato come il modello di organizzazione formalmente adottato a norma del d.lgs. n. 231 del 2001 non sia l’unico presidio di controllo in grado di gestire il rischio-reato: spesso, nelle realtà aziendali particolarmente articolate, il modello 231 rappresenta solo una delle forme di compliance attuate. Come osservato da più parti, infatti, la diligenza organizzativa ben può essere comprovata anche attraverso misure alternative parimenti efficaci.

Ebbene, il Tribunale non disattende tale interpretazione e ammette che l’osservanza degli obblighi di direzione e vigilanza possa prescindere dall’adozione del modello ma chiarisce che, nel caso in esame, l’attenta istruttoria dibattimentale non ha evidenziato protocolli ulteriori rispetto a quelli consolidati nel MOG della società.

Delineati i requisiti per imputare una responsabilità all’ente per il fatto commesso da soggetti non apicali ex art. 7, quali sono quindi le condizioni per una corretta organizzazione? E ve ne sono di ulteriori o diverse rispetto a quelle indicate dall’art. 6 (predisposizione del MOG e nomina ODV)?

Il Collegio nell’affermare che l’art. 7 non prevede parametri differenti rispetto a quelli di cui all’art. 6, applica a un’interpretazione che tende a una progressiva unificazione del criterio di imputazione della responsabilità all’ente.

Il Tribunale sembra, infatti, ritenere ipotizzabile un unico schema per ascrivere la responsabilità all’ente fondato sulla colpa di organizzazione con conseguente unitarietà del modello organizzativo, da predisporre sulla base di una lettura combinata dei requisiti previsti dagli articoli 6 e 7.

Alla luce di queste considerazioni il Tribunale di Milano vaglia quindi le risultanze dibattimentali attraverso un giudizio di prognosi postuma, prendendo in esame le singole carenze organizzative emerse e valutando la sussistenza di una loro connessione causale con il reato occorso, evitando quindi di formulare un giudizio avente ad oggetto solo il modello in generale. Nel fare ciò il Collegio, in ossequio alle più recenti pronunce di legittimità, non dimentica di evidenziare come la prova delle difformità in grado di fondare la colpa di organizzazione (ovvero la prova dell’assenza) debba necessariamente essere fornita dalla Pubblica Accusa.

Nel percorso argomentativo il Tribunale sottolinea poi l’importanza dei flussi informativi quale strumento idoneo affinché il modello sia efficace per scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.

Criterio di prevenzione che viene soddisfatto altresì laddove i controlli previsti dal modello vengano attivati con efficacia “bloccante”. Pertanto, si ritengono insufficienti i controlli a campione attuati dalla società in quanto inidonei a rilevare l’anomalia che caratterizzava l’insieme dei rapporti contrattuali illeciti verificatesi nel caso in esame.

Il Tribunale si sofferma, inoltre, sul sistema disciplinare, quale presupposto per l’efficace attuazione del modello laddove sia idoneo a sanzionare le violazioni. Nel caso di specie, viene invece ravvisata una sistematica disapplicazione del sistema disciplinare con conseguente ulteriore inosservanza dell’art. 7. Sul punto si evidenzia come le sanzioni debbano essere concretamente applicate non solo al dipendente che ha commesso il reato presupposto ma anche ai soggetti che hanno violato i propri doveri di direzione e vigilanza.

Da ultimo, anche per quanto attiene l’aspetto sanzionatorio, la sentenza in commento si rivela interessante in quanto il Tribunale propone un compiuto esame delle condotte riparatorie, previste dall’art. 17 d.lgs. 231/2001, per evitare le sanzioni interdittive.

In particolare, il Collegio dà evidenza dei seguenti elementi: il risarcimento delle parti civili costituite nel procedimento contro le persone fisiche, la messa a disposizione da parte della società del profitto del reato per la confisca ma, soprattutto, l’aver eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato attraverso l’adozione e attuazione di un modello idoneo.

La società nel caso in esame ha, infatti, predisposto l’aggiornamento del modello attraverso la mappatura dei nuovi rischi derivanti dalle modifiche organizzative e dalle novità normative intervenute, implementato nuovi protocolli e modificando quelli esistenti.

Viene, altresì, sottolineata l’importanza dell’attività di impulso svolta dall’Organismo di Vigilanza rispetto all’aggiornamento del modello, nonché l’adempimento diligente degli obblighi di controllo in capo allo stesso e l’attuazione di un programma di formazione continua sulle nuove misure organizzative adottate.

La realizzazione di tutto ciò ha quindi portato ad escludere l’applicazione delle sanzioni interdittive.

Dalla lettura complessiva della sentenza emerge, quindi, una novità senza precedenti ovvero il notevole – e apprezzabile – sforzo del Tribunale di calarsi concretamente nella dimensione organizzativa dell’ente onde verificare l’esistenza di un nesso causale tra la sussistenza di colpevoli carenze organizzative e la realizzazione dei fatti di reato contestati ai soggetti non apicali, enucleando principi di grande importanza per la realizzazione di una corretta compliance 231.

avv. Monica Alberti

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