Il reato di diffamazione posto in essere attraverso l’utilizzo dei social network da anni ormai è oggetto di analisi da parte della dottrina e della giurisprudenza.
È principio consolidato che la condotta diffamatoria posta in essere attraverso internet, e nello specifico le piattaforme social, integri la fattispecie di diffamazione aggravata di cui al comma 3 dell’articolo 595 c.p.
Diversamente dalla fattispecie base punita con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino ad € 1.032, la diffamazione aggravata prevede un quantum edittale da sei mesi a tre anni di reclusione o l’applicazione di una multa non inferiore ad € 516.
La scelta da parte del legislatore di riconoscere un trattamento sanzionatorio più aspro rispetto alla fattispecie base di reato risiede nella potenzialità diffusiva del mezzo informatico e quindi nell’idoneità del veicolo di raggiungere un numero indeterminato di destinatari.
Sul reato di diffamazione aggravata i Giudici della Suprema Corte hanno anche da ultimo espresso puntualizzazioni in merito alla identificazione della persona offesa nonché all’attribuibilità del post diffamatorio al proprietario del profilo social.
Un recente caso, infatti, avente ad oggetto un post Facebook caratterizzato da parole offensive quali “nana” e “spazzina” è stato portato all’attenzione della Cassazione avendo sostenuto l’imputato ricorrente che non essendo stato indicato il nome della persona offesa il reato non potesse ritenersi integrato.
Con la sentenza n. 10762/2022 i Giudici di legittimità, nel confermare la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Torino, hanno espresso il principio secondo il quale “non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali”.
Si può quindi affermare che, sulla scorta del citato arresto giurisprudenziale, per integrare il reato di diffamazione aggravata sul web non è elemento essenziale l’indicazione del nome e del cognome della persona offesa, essendo sufficiente che altri elementi riferibili al soggetto portino alla sua identificazione da parte degli utenti del web anche se in numero ridotto.
Mentre, per ciò che concerne l’attribuibilità del post diffamatorio al titolare del profilo Facebook, la Cassazione ha fatto chiarezza con la sentenza n. 39805/2022.
Oltre a richiamare un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo il quale in assenza di elementi contrastanti – quali una eventuale denuncia per “furto di identità digitale” – il post è attribuibile al proprietario del profilo sul quale è avvenuta la pubblicazione, i Giudici hanno espresso il principio secondo cui il contenuto stesso delle pubblicazioni se caratterizzato da dovizia di dettagli, “finisce per svolgere un’insuperabile portata individualizzante” nei confronti dell’imputato.
avv. Federica Beltrame